La Mielofibrosi Idiopatica (MI) è una malattia mieloproliferativa cronica caratterizzata da una proliferazione clonale neoplastica prevalentemente dei precursori di globuli bianchi (granuloblasti) e delle piastrine (megacariociti) nel midollo osseo, che nella malattia conclamata, si associa alla deposizione reattiva di tessuto connettivo fibroso a livello midollare e al conseguente sviluppo di fibrosi midollare (mielofibrosi) ed emopoiesi extramidollare.
Epidemiologia: l’incidenza stimata della MI è di 0.5-1.5 nuovi casi su 100.000 abitanti per anno, la mediana di età alla diagnosi è tra i 60 e i 70 anni di età e non vi è una prevalenza di sesso. La MI è rarissima nella popolazione pediatrica.
Eziopatogenesi: le cause della MI non sono attualmente note. In alcuni casi è stata documentata una esposizione al benzene o alle radiazioni ionizzanti e sono stati descritti anche alcuni rari casi familiari. Da un punto di vista patogenetico va sottolineato che la MI è una neoplasia della cellula staminale emopoietica ad orientamento mieloide e che la deposizione di tessuto connettivo fibroso che caratterizza la malattia è dovuta all’espansione policlonale (quindi reattiva) dei fibroblasti midollari come conseguenza della produzione da parte delle cellule neoplastiche di fattori di crescita dei fibroblasti (es. il PDGF o il TGF-beta).
Da un punto di vista patogenetico, circa il 50% dei casi di MI sono caratterizzati alla diagnosi dalla presenza della mutazione V617F del gene Janus Kinase-2 (JAK-2). Il gene JAK-2 codifica per una proteina ad attività tirosin-chinasica che volge un ruolo fondamentale nella proliferazione delle cellule progenitrici prevalentemente dei globuli rossi (eritroidi), ma anche delle piastrine (megacarocitarie) e dei globuli bianchi (granulocitarie). La mutazione V617F del gene JAK-2 destabilizza la molecola e induce un aumento della sua attività tirosin-chinasi con proliferazione non più controllata di cellule progenitrici; non è tuttavia ancora chiaro perché questa incontrollata proliferazione determini nella MI la deposizione reattiva di tessuto connettivo fibroso a livello midollare, caratteristica della fase fibrotica della malattia. Nel 5% dei casi di MI sono state inoltre descritte delle alterazione funzionali a carico del gene MPL (MPL W515K/L) non descritte nelle altre sindromi mieloproliferative croniche. Infine, nel 30% dei casi di MI è possibile evidenziare la presenza alla diagnosi di anomalie cromosomiche (es. delezione del cromosoma 13, traslocazione tra i cromosomi 1 e 16, trisomie dei cromosomi 1, 8 e 9).
Diagnosi: la diagnosi di MI non é sempre agevole, soprattutto nelle prime fasi della malattia, in cui la MI può essere confusa con altre malattie mieloproliferative o con una sindrome mielodisplastica. Per la diagnosi di MI sono necessari diversi esami ematici e strumentali:
- Emocromo e esami ematici (compresi LDH, uricemia, ferritina, acido folico e vitamina B12);
- ECG e visita cardiologica;
- Ecografia addome completo e radiografia del torace (oppure TC total body);
- Esame dello striscio di sangue venoso periferico;
- Biopsia osteo-midollare ed aspirato midollare;
- Conta delle cellule CD34+ del sangue periferico;
- Ricerca della mutazione V617F del gene JAK-2 e del gene di fusione BCR-ABL;
I nuovi criteri diagnostici definiti nel 2008 dalla World Health Organization (WHO) sono:
CRITERI MAGGIORI
- Proliferazione abnorme della linea megacariocitaria con presenza di atipie morfologiche associata alla presenza di fibrosi reticolinica o collagene dimostrata dalla biopsia osteo-midollare oppure, in assenza di significativa fibrosi reticolinica, le alterazioni a carico della serie megacariocitaria devono essere associate ad un incremento della cellularità midollare con proliferazione della serie granulocitaria e ridotta eritropoiesi;
- Assenza di criteri WHO per Policitemia Vera, Leucemia Mieloide Cronica BCR-ABL+ o altre forme di malattie mieloproliferative croniche o sindromi mielodisplastiche;
- Presenza della mutazione V617F del gene JAK-2 o di altre anomalie clonali (es. MPL W515K/L) o, in assenza di queste anomalie, assenza di cause secondarie responsabili della fibrosi midollare (es. malattie autoimmunitarie o infiammatorie croniche, leucemia a cellule capellute, metastasi midollari da tumore, mielopatie tossiche, ecc);
CRITERI MINORI
- Leucoeritroblastosi (presenza di mieloblasti ed eritroblasti all’esame morfologico dello striscio di sangue periferico);
- Aumento dei livelli sierici di LDH;
- Anemia;
- Splenomegalia;
Per la diagnosi di MI devono essere presenti tutti i criteri maggiori e 2 dei criteri minori
Manifestazioni cliniche: L’esordio della MI è tipicamente subdolo e la diagnosi può essere casuale: circa il 30% dei pazienti sono infatti assolutamente asintomatici al momento della diagnosi. Nel 60-70% dei pazienti, al contrario, all’esordio della malattia è presente una sintomatologia clinica aspecifica caratterizzata da: astenia marcata e pallore cutaneo, inappetenza e anoressia, senso di pienezza post-prandiale o sazietà precoce, febbricola, dolori ossei diffusi ed emorragie muco-cutanee. E’ frequente la presenza di un ingrossamento della milza (splenomegalia) e del fegato (epatomegalia); in alcuni casi si possono avere sintomi e segni di ipertensione portale (es. varici esofagee), manifestazioni immunologiche e alterazioni scheletriche. Schematicamente è possibile suddividere la storia naturale di questa malattia in 2 momenti fisiopatologici:
1. la fase precoce (o pre-fibrotica), nella quale si possono avere segni di proliferazione midollare (es. incremento del valore delle piastrine o dei globuli bianchi), non è presente anemia grave né incremento dei livelli sierici di LDH, si ha una modica splenomegalia e non è presente fibrosi midollare;
2. la fase avanzata (o fibrotica), in cui è presente una diffusa fibrosi midollare fino ad arrivare all’osteosclerosi con emopoiesi extramidollare, anemia grave con fabbisogno trasfusionale, riduzione del numero dei globuli bianchi e delle piastrine, aumento dei livelli sierici di LDH e importante splenomegalia che può talora occupare quasi completamente la cavità addominale esercitando compressione sugli altri organi.
Fattori prognostici: la prognosi della MI è notevolmente variabile da persona a persona e il tempo di sopravvivenza dalla diagnosi può andare da pochi mesi a diversi anni. L’individuazione di fattori prognostici è importante per la corretta stratificazione prognostica dei pazienti alla diagnosi e fondamentale per stabilire il corretto iter terapeutico. La scala prognostica attualmente più utilizzata per la stratificazione prognostica dei pazienti con MI alla diagnosi è quella dell’International Prognostic Scoring System (IPSS):
SCALA PROGNOSTICA PER LA MI (IPSS, 2009)
Numero di fattori prognostici sfavorevoli (*) | GRUPPO DI RISCHIO | Sopravvivenza mediana dalla diagnosi |
0 | Basso | 135 mesi |
1 | Intermedio 1 | 95 mesi |
2 | Intermedio 2 | 48 mesi |
3 o più di 3 | Alto | 27 mesi |
(*) Fattori prognostici sfavorevoli:
– Anemia (Hb < 10 gr/dl);
– Globuli bianchi (GB > 25.000/mmc);
– Presenza di blasti nel sangue venoso periferico;
– Presenza di sintomi costituzionali;
– Età > 65 anni.
Una percentuale variabile tra il 5 e il 30% dei pazienti con MI va incontro ad una trasformazione leucemica dopo un tempo notevolmente variabile dalla presentazione clinica; questo può avvenire indipendentemente dall’assunzione di farmaci citotossici, cosa che fa pensare come la trasformazione in leucemia acuta sia da considerare una fase nella storia naturale della malattia.
Terapia: al momento attuale ancora non esiste una terapia specifica in grado di alterare il decorso naturale della MI, ma le terapie cui vengono sottoposti i pazienti sono essenzialmente “sintomatiche”. I principali farmaci hanno lo scopo di controllare l’anemia (es. androgeni, eritropoietina, talidomide) o la splenomegalia (es. idrossiurea, melfalan). Non esistono al momento terapie in grado di contrastare la fase fibrotica della malattia. L’unica terapia in grado di offrire una possibilità di cura ai pazienti affetti da MI si è dimostrata essere il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoitiche, che, tuttavia, essendo gravato da una mortalità legata alla procedura che varia dal 10 al 30%, dovrebbe essere riservato solo ai pazienti giovani con IPSS intermedio 2 o alto alla diagnosi (quindi con probabilità di sopravvivenza inferiore ai 4 anni).
Nuove terapie: le nuove acquisizioni in campo molecolare che sono state fatte negli ultimi anni e che hanno permesso di comprendere meglio i meccanismi patogenetici che stanno alla base di questa malattia, hanno fornito gli strumenti per lo sviluppo di nuovi farmaci potenzialmente in grado di modificarne la storia naturale. Tra i nuovi farmaci sviluppati, ancora in fase di sperimentazione, ricordiamo gli inibitori di JAK-2, come ad esempio l’INC424 (RUXOLITINIB) prodotto da Novartis in Europa e fornito per uso compassionevole e il CEP701. Sono attualmente in fase di sperimentazione anche altre molecole, come alcuni inibitori dell’istone deacetilasi (es. panobinostat), alcuni inibitori di mTOR (es. everolimus) e i nuovi farmaci antiangogenetici (es. pomalidomide).